Sostenibilità e insostenibilità sono parole inflazionate, tutti ne parlano, tanti ne abusano, rimane però il fatto che il loro significato esprime questo tempo più di ogni altro termine. La sostenibilità è indice del grado di empatia tra l’uomo e la natura. È spontaneo dunque domandarsi: quanto l’uomo si riconosce in questo legame? Quanto il suo essere animale o animale sociale gli permette di vivere “sostenibilmente”?
Nel pensiero classico, la civitas viene contrapposta allo stato di disordine in cui gli uomini vivevano prima della sua formazione. Da uno stato di natura, in cui i diritti sono labili e le risorse possono essere sfruttate indistintamente, l’uomo si organizza in società complesse in cui tali libertà vengono “regolamentate”.
L’uomo passa dall’essere preda alla pari di qualsiasi altro animale, a predatore, da semplice animale ad animale sociale. L’evoluzione dell’uomo è qui intesa, quindi, nella sua accezione culturale.
L’organizzarsi in società lascia emergere la consapevolezza di poter esercitare un certo grado di controllo su tutto ciò che prima generava disordine, sulle risorse, sul presente e sul futuro. Attualmente, però, sembra si stia vivendo la situazione opposta. Il controllo è fuori controllo, lo sfruttamento regolato è senza regole. La natura si ribella al dominio distruttivo dell’uomo e, a suo modo, lo rende nuovamente impotente.
È dunque quel che si direbbe “un cane che si morde la coda”? Mai come oggi l’uomo si accorge dei suoi limiti e, posto che non possa restituire alla natura ciò che essa gli ha concesso in prestito, come può uscire da questo circolo vizioso? E ancora, il fatto che si sia giunti a tal punto, non è una contraddizione se si pensa che la società nasce anche per evitare tutto questo?
C’è, difatti, chi sostiene che l’uomo non sia di per sé insostenibile, ma che lo sia nella sua forma sociale. Ad averlo reso tale, è proprio il fatto che egli si sia trasformato in predatore, troppo spesso incapace di considerarsi come parte di un insieme. Questa, forse, non è una considerazione applicabile ad ogni società, ma principalmente alla società occidentale.
Emerge allora il problema della libertà umana nella gestione di un mondo che si considera nostro: sembra essersi diffusa l’idea che il mondo sia DELL’uomo e PER l’uomo; lo si considera poco nel suo essere CON l’uomo, mentre sembra fin troppo evidente che fare qualcosa per l’ambiente è, al contempo, fare qualcosa per l’uomo.
Risulta dunque inevitabile domandarsi se l’uomo riuscirà, prima o poi, a recuperare quel che ha distrutto? In che modo potrà essere sostenibile anche nella sua dimensione sociale?
Non sarà possibile fino a quando non riscopriremo la necessità del rispetto e della responsabilità per qualcosa che non è altro dall’uomo ma è elemento che permea la sua vita. Dovremmo saper diffondere la cultura del “prendersi cura”, tanto dell’insieme quanto del particolare.
Per saperne di più:
Angel, El reto de la vida: ecosistema y cultura, ECOFONDO, Bogotà, 1996.