La globalizzazione della economia, accompagnata da una cultura globale, sta profondamente modificando il tessuto locale, culturale e politico dello stato-nazione e soprattutto l’aspetto architettonico delle città.
Questo processo, la cui caratteristica principale è una continua esigenza di competitività, ha generato la necessità di una standardizzazione dei prodotti, preferendo quelli più conosciuti, più sponsorizzati a scala internazionale rispetto a quelli regionali, che possono essere spesso di qualità ed efficienza migliore. Molte grandi città, alle diverse latitudini, Asia, America o Europa, infatti, presentano oggi delle caratteristiche più comuni fra loro, che in rapporto ai rispettivi ambiti regionali e nazionali.
Il fenomeno si estende a tutta la scala del processo costruttivo, dalla progettazione del dettaglio all’intero contesto territoriale: uniformità non solo dei materiali, ma anche della concezione e tipologia architettonica, con un conseguente impoverimento del risultato finale.
Osservando gli skyline di molte città, ci rendiamo conto di come, le architetture del vetro, acciaio e cemento, dell’aria climatizzata hanno quasi completamente soppiantato l’uso di elementi e tecnologie locali quali: la pietra, il legno, la terra, il riscaldamento e raffrescamento naturali. Le grandi “griffe” dell’architettutura, spesso principali artefici di ciò, impongono, frequentemente, tipologie, schemi e immagini finali che difficilmente si contestualizzano con l’ambiente in cui verranno inseriti e spesso il rapporto con la preesistenza non viene visto nemmeno come uno degli obiettivi del progetto. La grande architettura si trasforma così nella opportunità di lancio per determinati prodotti che maggiormente entreranno nel mercato, incidendo sul loro “valore” economico.
L’abbandono delle tecnologie locali e autoctone e la diminuzione del loro uso, infatti, rende inevitabilmente i materiali molto meno commercializzati, portando di conseguenza a un possibile aumento dei loro costi e a una difficile loro promozione. In molte aree geografiche si sono perse tradizioni e modi del buon costruire; sebbene i materiali fossero maggiormente sostenibili e di buona qualità, la loro difficoltà ad entrare in un sistema di produzione a scala industriale ha fatto si che abbiano ceduto il posto, inevitabilmente, a categorie di prodotti di minor pregio, ma con costi più competitivi: il legno viene sostituito dalla plastica, il sughero dal polistirolo, il laterizio e la pietra dal cemento armato, etc etc.
La casa, nell’era della economia globale, stà perdendo la sua funzione principale di luogo del vivere funzionale, salubre e possibilmente in armonia con il contesto, diventando sempre più un prodotto da catalogo, quindi esclusivo prodotto di scambio economico: la casa tipica mediterranea che viene realizzata e venduta nei paesi arabi o la casa di montagna, lo chalet, proposta e realizzata vicino al mare, ignorando completamente il concetto del regionalismo.
È evidentemente impossibile modificare il percorso del processo economico, sarebbe però auspicabile evitare di essere completamente assorbiti da questo, cercando di conservare una maggiore sensibilità e coscienza rispetto alla salvaguardia, al recupero della tradizione regionale e di tutti quegli elementi che, siano forme o materiali, costituiscono la identità e il patrimonio della coscienza collettiva.
Florencia Guidobono, Leandro Panigo, Ana Paola Tomas, Stella Spinelli